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“Siamo con voi nella notte”, è la scritta al neon del duo Claire Fontaine che in questi mesi riluce nel cortile della Casa di reclusione femminile alla Giudecca dove è stato allestito il Padiglione della Santa Sede dal titolo “Con i miei occhi” in occasione della 60esima Biennale d’arte di Venezia 2024. (La foto è di Marco Cremascoli). È la frase che apparve fuori dal carcere di Firenze e altre prigioni italiane negli anni ’60 e ’70, in solidarietà ai detenuti politici legati alle proteste e movimenti di contestazione, per ricordare loro che non erano soli. Lo stesso messaggio viene rivolto alle detenute della Giudecca.
L’idea suggestiva di allestire il Padiglione della Santa Sede alla biennale di Venezia in casa di detenzione, manifesta proprio questa idea di vicinanza, fatta attraverso l’arte. L’arte educa e ci immette in un circolo di bellezza più grande di noi e ci porta verso l’alto (e-ducere).
Penso che questa scritta “Siamo con voi nella notte” debba rifulgere anche nei cortili delle scuole, non non perché le consideriamo delle prigioni, ma perché educare è stare insieme alle persone più giovani nei momenti oscuri della loro esistenza. Nessuno è così ingenuo da pensare che l’adolescenza e la gioventù siano i momenti più felici della vita senza preoccupazioni. Sono fasi delicate e sofferenti dove i ragazzi spesso si sentono soli nell’affrontare il mestiere di vivere. E a volte soccombono nel compiere questo mestiere, come i morti sul lavoro. Gli innumerevoli casi di suicidi giovanili, come il recente caso del giovane “dei pantaloni rosa”, gli ‘sballamenti’ totali, la droga, promiscuità, il bullismo, la violenza tra le gang giovanili, sono segno di un disagio profondo e spesso ingestibile.
Papa Francesco indica come secondo impegno del Patto Educativo Globale l’ascolto dei ragazzi, adolescenti e giovani. Se come educatori dedicassimo più tempo ad ascoltare i giovani, piuttosto che a dirgli cosa devono fare, forse si sentirebbero meno soli.
La maggioranza dei detenuti nelle prigioni è fatta di giovani, così pure alla Giudecca. Quando abbiamo visitato il padiglione della Santa Sede, ci hanno fatto da guida alcune detenute, offrendoci non solo un percorso artistico, ma anche umano. Le nostre detenute/guide ci dicevano che in carcere seguono anche corsi di formazione. L’educazione è lo strumento che permette il loro riscatto, la loro crescita.
Da alcuni anni nell’insegnamento della disciplina “Educazione degli adulti/Lifelong Learning” all’università LUMSA di Roma, ho inserito un capitolo sulla pedagogia carceraria. Questa pedagogia concepisce l’educazione come pratica di libertà che mira a smantellare le basi generatrici dell’attività delinquenziale facendo emergere i condizionamenti ambientali e bio-psicologici che hanno influenzato certe scelte, prendere coscienza di essi e tentare di superarli. Educare a riappropriarsi di sé stessi, riacquistare la dignità, l’autostima, riannodare i legami familiari. Educazione come pratica di liberazione, umanizzazione, socializzazione. Ben vengano le proposte di riduzione della pena a chi frequenta la scuola in carcere (1 giorno in meno di detenzione per ogni 12 ore di lezione?). La maggior parte dei detenuti ha una scolarizzazione bassa e coloro che si mettono a studiare si sentono più motivati a cambiare vita rispetto a chi non studia, e una volta usciti dal carcere difficilmente tornano a delinquere.
Nella Chiesa sconsacrata del Carcere della Giudecca (che in passato era un monastero delle Convertite) c’è l’opera della brasiliana Sonia Gomes, composta da 34 lunghe corde multicolori appese al soffitto fatte con tessuti ispirati alla tradizione brasiliana, che vogliono simbolizzare la diversità delle donne nel mondo. La nostra guida/detenuta ci dice che l’atteggiamento che di solito assumiamo quando sbagliamo è quello di abbassare la testa guardando il pavimento, e invece l’artista appendendo le sue opere in alto vuole significare che dobbiamo sempre guardare in alto, non abbatterci o abbassarci, ma rialzarci con speranza. Un messaggio di grande dimensione educativa.
Così il cortometraggio di 16 minuti di Marco Perego con protagonista la moglie Zoe Saldana, l’attrice di “Avatar”, mostra l’intensità delle relazioni umane e profonde che si vivono anche in un ambiente sofferto come il carcere. Sono le relazioni che ci fanno vivere.
Al termine del nostro percorso artistico/umano abbiamo celebrato la Santa Messa con le detenute. Quale conclusione migliore di un percorso così intenso? Nella messa vespertina di Tutti i Santi, il Cardinal Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione J. Tolentino de Mendonça, commissario del padiglione della Santa Sede, ha detto nell’omelia che tutti siamo chiamati alla santità, tutti, nessuno escluso, e quindi anche le persone detenute. Perché la santità è un cammino, un processo, una meta che tutti possono/devono raggiungere. La commozione sul volto delle detenute era visibile, anche loro si sono sentite chiamate alla santità.
Gesù duemila anni aveva detto già “Sono con voi nella notte” con altre parole: “Io sono con voi fino alla fine del mondo”.