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“Aprire all’accoglienza” è il quinto obiettivo del Patto Educativo Globale: “Educare ed educarci all’accoglienza, aprendoci ai più vulnerabili ed emarginati”. Ma cosa significa, concretamente, aprirsi ai più fragili? In un mondo segnato da disuguaglianze e nuove forme di esclusione, l’educazione delle persone più vulnerabili diventa una via privilegiata per costruire una società più umana e solidale.
In questa riflessione ci soffermiamo su quattro ambiti emblematici dell’educazione “speciale”: i carcerati, i senzatetto, i migranti e gli anziani. In ciascuno di questi contesti, educare significa credere nel potenziale di riscatto di ogni persona e nella sua capacità di contribuire al bene comune.
La pena, per essere efficace, non può limitarsi alla privazione della libertà: deve diventare un’occasione di cambiamento interiore e sociale. Ogni detenuto, anche il più colpevole, porta con sé una storia ferita, ma non priva di valore.
L’educazione in carcere è un processo delicato e profondo, che richiede tempo, competenze e fiducia. Non basta correggere comportamenti: bisogna ricostruire la persona. Studio, arte, spiritualità, ascolto e percorsi di reinserimento diventano strumenti di rinascita.
Un carcere che educa è un carcere che riduce la recidiva e restituisce alla società persone nuove. È dimostrato che chi ha potuto studiare in carcere difficilmente torna a delinquere. La sfida è culturale: superare l’idea della pena come vendetta e investirla di senso educativo, promuovendo misure alternative, luoghi dignitosi, relazioni significative e percorsi di consapevolezza.
Educare chi vive nella marginalità estrema è prima di tutto un atto di profonda umanità. Chi vive per strada spesso porta con sé traumi, solitudine e fallimenti. In questi casi, l’educazione non è solo trasmissione di conoscenze, ma riscoperta della propria dignità e del senso della vita.
Progetti educativi itineranti e flessibili dimostrano che è possibile accompagnare queste persone secondo i loro ritmi e bisogni. L’educatore diventa un compagno di strada, un testimone di speranza.
La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, la resilienza, e la teoria delle capacità di Sen e Nussbaum ci offrono strumenti per sostenere percorsi che attivano le risorse interiori anche di chi si trova ai margini.
In un mondo segnato da migrazioni complesse, l’educazione dei migranti è diventata un’urgenza. Educare un migrante significa accoglierlo, riconoscerlo, valorizzarlo. L’insegnamento della lingua è solo l’inizio: serve una formazione civica, interculturale e lavorativa, basata sull’ascolto della storia personale. Molti migranti possiedono titoli e competenze che restano invisibili. È necessario superare queste barriere con il riconoscimento degli apprendimenti pregressi e percorsi personalizzati.
Il passaggio dall’integrazione all’inclusione è decisivo: non si tratta solo di adattare i migranti alla società, ma di trasformare la società in uno spazio più accogliente per tutti.
Le esperienze più avanzate mostrano che la personalizzazione dei percorsi, la formazione degli operatori e il coinvolgimento delle comunità locali sono decisivi per un’inclusione autentica.
L’aumento della vita media ha trasformato il significato della vecchiaia: invecchiare non è più un ritirarsi, ma un’opportunità. L’apprendimento in età avanzata è possibile e benefico: per la mente, il cuore e le relazioni.
Le teorie dell’andragogia, della plasticità cerebrale e della selettività socio-emotiva dimostrano che anche gli anziani possono apprendere, se l’insegnamento è significativo e legato alla loro esperienza. Università della Terza Età, progetti autobiografici e attività intergenerazionali sono esempi efficaci di lifelong learning.
Imparare a 80 anni è un atto di resistenza alla marginalità e un’affermazione della propria umanità. Significa sentirsi parte della comunità, avere ancora qualcosa da dire, da scoprire, da donare. Educare gli anziani significa educare tutti noi a non temere il tempo che passa, a valorizzare l’esperienza e a coltivare la speranza anche negli ultimi capitoli della vita.
In conclusione
Educare all’accoglienza significa umanizzare l’educazione e umanizzare tutti: educatori e educandi. Aprirsi ai più vulnerabili è un atto pedagogico, spirituale, politico – e profondamente umano. Ogni persona ha diritto di imparare, raccontarsi e ricostruirsi. L’educazione è un gesto di fiducia nella capacità dell’altro di cambiare, e nella possibilità della comunità di rigenerarsi accogliendo.
Come ricorda Papa Francesco, “educare è un atto di speranza”; e aggiungerei che lo è in modo particolare quando educhiamo chi, nella società, è più vulnerabile
Padre Ezio Lorenzo Bono, CSF Segretariato per il Patto Educativo Globale